Proviamo a sfatare alcuni miti, o meglio, dogmi, che sono dichiaratamente alla base delle scelte urbanistiche. Siamo felici che esistano ancora grandi uomini prima che grandi architetti o ingegneri, come Edoardo Salzano. Dobbiamo questa piccola “rubrica” al ricco materiale consultabile nel suo blog “eddyburg”.
D come Diritti edificatori
La questione dei cosiddetti “diritti edificatori” non è altro che quella bizzarra teoria secondo la quale se un PRG ha attribuito una capacità edificatoria a un’area questo “regalo” non può essere tolto al proprietario senza indennizzarlo adeguatamente. Ugualmente, è pernicioso continuare ad adoperare l’espressione “diritti edificatori” senza ricordare che questi vengono attribuito solo con l’atto abilitativo: non dalle decisioni del piano urbanistico generale, e neppure da quello attuativo. É sempre possibile revocare una decisione urbanistica se questa non ha ancora ottenuto effetti concreti, se non ha comportato spese per opere legittimamente e documentatamente sostenute. Il territorio non ha alcuna “vocazione edificatoria”, ove operatori e amministratori rozzi o complici della speculazione immobiliare non gliela concedano.
P come Perequazione
Nella versione nobile voleva significare “indifferenza dei proprietari alle destinazioni dei piani” (Aldo Moro, 1964). L’esigenza di una equità nelle scelte della pianificazione del territorio è da tempo presente. Ma equità tra chi e per che cosa? Non in termini di giustizia sociale, non tra gli abitanti, cittadini o aspiranti tali: tra i proprietari di suolo urbano. Oggi si procede così: Spalmiamo una cubatura (tot metri cubi di edifici per ogni mq di terreno) su tutta l’area che vogliamo urbanizzare: volumi teorici ugualmente spalmati sulle aree sulle quali sorgeranno quartieri e lottizzazioni, fabbriche, servizi e spazi pubblici urbani e territoriali. Se ci serve un’area per fare un parco o una scuola consentiamo al proprietario di tenersi stretti i suoi volumi teorici spostandoli su un altro suolo, e ci facciamo dare gratis l’area che ci serve per gli usi pubblici. Naturalmente, più estendiamo le aree urbanizzabili più aree per servizi riusciamo a ottenere. (Poi magari non ci saranno i soldi per costruirle, le scuole!!!) Quindi dimensioniamo il piano non sulla base dei fabbisogni effettivi, ma inseguendo le spinte della proprietà immobiliare: in quel mercato nel quale (come gli economisti liberali seri hanno dimostrato) la concorrenza non c’è. Bisogna convincersi che la perequazione, nei termini in cui viene proposta e praticata, è un’imbecillità perniciosa: É un’imbecillità perché, seppure poteva avere un senso nell’età dell’espansione, non ne ha certamente nessuno oggi. É un’imbecillità perché non tiene conto che – come gli eventi recentissimi dimostrano – l’attività immobiliare non è più il motore di nessuno “sviluppo”, neppure il meno sostenibile: è solo un fattore di crisi. Ed è perniciosa perché non comporta altro che l’espansione generalizzata delle “capacità edificatorie”, comunque travestite. Predicare e praticare la perequazione allargata significa soltanto incentivare la piaga italiana dell’aberrante consumo di suolo. Criticare il consumo di suolo e continuare a difendere la perequazione è segno di ipocrisia, oppure testimonianza di schizofrenia. E infine, parlare di equità solo a proposito dei valori immobiliari e utilizzare la perequazione come strumento della pianificazione significa perpetuare ed accrescere la profonda iniquità nell’uso della città.
R come Rendita Immobiliare
Ecco un’altra magica parola che strozza la buona urbanistica. La proprietà immobiliare, invece di essere ricondotta a una sua “funzione sociale” (come la Costituzione, articolo 42, vorrebbe), è stata assunta come “motore dello sviluppo”: più il suo valore economico aumenta, più l’economia va. Che cos’è la rendita? Secondo l’economia classica, quella fondata su un’analisi del ruolo sociale e umano dell’economia, la rendita è una delle tre componenti del reddito: il salario, che corrisponde all’impiego, da parte del lavoratore, del suo tempo di lavoro; il profitto, che secondo alcuni è l’appropriazione di una parte del valore creato dal lavoro, secondo altri la remunerazione corrispondente al ruolo imprenditivo; la rendita, che è la quota del reddito della quale si appropria il proprietario di un bene necessario alla produzione, per il solo privilegio di esserne proprietario. Ora è chiaro che mentre al salario e al profitto corrisponde un preciso ruolo sociale, finalizzato alla produzione di merci, anche all’interno di una logica capitalistica alla rendita corrisponde un ruolo meramente parassitario. Negli anni 60 e 70 questa verità era chiara alla parte stragrande dello schieramento politico, nel parlamento e nelle amministrazioni locali, e alla cultura specializzata. Era la tesi comune alla sinistra, ma non solo a questa: lo testimoniano dibattiti, tentativi legislativi ed esperienze amministrative nell’area del “centrismo” a guida DC. Perfino gli esponenti dell’industria moderna, del “capitalismo avanzato”, se ne convinsero, e compresero (1970-71) che se non si fosse contenuta la rendita (in particolare quella urbana) le condizioni di vita dei lavoratori (affitto, trasporti, servizi) sarebbero divenute più costose, e quindi la pressione sindacale sarebbe cresciuta e avrebbe costretto a cedere al salario quote di profitto. Oggi no: la rendita immobiliare, componente essenziale della proprietà immobiliare, è considerata il “motore dello sviluppo”. È dunque un problema che richiede, soprattutto, determinato impegno politico. La premessa necessaria è che si restauri il principio, mai smentito dalla teoria e continuamente confermato dalla pratica, che la rendita immobiliare è una componente parassitaria della vita economica della società: è un mero pedaggio che si paga al privilegio proprietario. La rendita immobiliare va ridotta quanto è possibile farlo, e va “tosata” a favore del potere pubblico, che è quello che la determina: è quello che, con le scelte dei piani e gli investimenti dell’urbanizzazione, storica e attuale, è produttore delle differenze e delle convenienze che la determinano. Ridurre la rendita si può, anche con i piani urbanistici. E si impari a fare i conti in tasca a chi compie operazioni immobiliari, ponendo a carico dei suoi oneri quote consistenti del valore dovuto all’incremento della rendita. In questa logica, come qualche comune sta iniziando a fare, si può rendere attuale un’antica intuizione di un grande esperto di diritto amministrativo, Alberto Predieri, che – a proposito della pianificazione veneziana – propose oltre trent’anni fa di inserire l’edilizia sociale tra le urbanizzazioni necessarie, da porre a carico degli standard urbanistici e dei relativi oneri. E dare così un contributo serio al problema della casa in affitto a canone sociale, di un’edilizia abitativa che resti pubblica e in affitto per sempre."
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