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le "coop sociali": verso dove? PDF Stampa E-mail
Mercoledì 19 Marzo 2014 13:18

Da lunedì 16 marzo 2014 il Centro Diurno per Disabili è passato in gestione alla coop sociale "Itaca" e i dipendenti dell'Azienda Sanitaria si accingono a migrare sparpagliati in varie sedi fuori dai confini di Sacile.
E gli ospiti del centro diurno sranno costretti a rapportarsi - prevedendo anche cambiamenti futuri - con operatori con i quali costruire ex novo il loro così delicato rapporto di fiducia.
SPS ha cercato di supportare la battaglia degli operatori, anche se facilemente poteva iterpretarsi come persa a priori. Perchè? Per capire meglio quale sia l'evoluzione e quale possano essere oggi le logiche, pubblichiamo per esteso l'intervento fatto da Dina Sovran al Congresso provinciale della CGIL nel marzo 2014:

Sono in ansia.

Mi sta assalendo una paura e un timore che non riesco a placare.

Domani cambio lavoro.

Anzi no, il luogo, i nonni e i colleghi sono sempre gli stessi, il lavoro più o meno sarà lo stesso. Quello che cambierò sarà il datore di lavoro.

Domani subirò il quarto cambio appalto della mia vita dopo 15 anni che lavoro nello stesso posto.

Domani diventerò socia della quarta cooperativa in 15 anni di lavoro.

Domani ricomincerò a versare per la quarta volta la quota sociale.

Mentre per ricevere quella versata alla cooperativa che se ne va devo invece aspettare più di un anno se va bene. Diventare socia della cooperativa sono un obbligo e un ricatto da subire per poter lavorare.

Non mi faccio più illusioni e anche la debole speranza che questa volta possa essere diverso non riesce a placare le mie ansie.

Le colleghe più giovani sono felici di cambiare la cooperativa. Io no.

La mia esperienza mi ha insegnato che ognuno che arriva taglia le mie ore oppure aumenta i ritmi del mio già troppo frenetico lavoro.

E poi chissà come sarà la nuova coordinatrice.

Certo alla presentazione era sorridente e disponibile. Ma sono tutte così i primi giorni. Poi prendono la mano e addio sorrisi e gentilezze. Si trasformano.

All’inizio parlavo ed esprimevo il mio disappunto. Poi ho imparato che è meglio stare zitte.

Lavoro, faccio il mio e mi rendo invisibile il più possibile.

Perché non c’è da aver timore solo della cooperativa, ma anche della direttrice della casa di riposo.

Se non piaci a lei ti fa mandar via dalla cooperativa con una lettera di non gradimento. E’ successo ad una mia collega che lavorava qua da tanti anni. Tutte sono terrorizzate da ciò, perché quella lettera è una condanna a morte. E tutte abbiamo bisogno di lavorare. E tutte avremmo bisogno di lavorare con tranquillità e serenità. Invece non è così.

Eppure a me piace il mio lavoro. Sono affezionata ai nonni che curo. Sono la mia famiglia.

Per le cooperative sono solo fatturato.

Ecco, noi siamo un po’ come gli oggetti d’arredo di una casa che viene messa in affitto. L’inquilino che esce ti lascia malconcio e quello che arriva ti valuta come fossi un pezzo d’arredo, sottoscrive il contratto, ti chiede di diventare socia e poi cerca di sfruttarti al meglio per tutta la durata del contratto. E se qualche pezzo dell’arredo non è gradito si farà in modo di cambiarlo e sostituirlo.

Perdonatemi l’insolito inizio del mio intervento.

Volevo cercare di farvi capire quali ansie, paure e speranze vivano le persone che lavorano negli appalti al momento di un cambio gestione.

E quando il sindacato non è presente le paure sono raddoppiate.

Servizi esternalizzati, appalti, cooperative. Questo è il moderno welfare che sempre più ci interessa, come cittadini, come lavoratori e come sindacato.

Ma cosa significa davvero lavorare in una cooperativa sociale?

Partirei con il ricordare che la funzione sociale delle cooperative senza fini di lucro, è riconosciuta direttamente in Costituzione dall’art. 45, che sancisce altresì il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende "ai fini dell'elevazione economica e sociale del lavoro".

Eppure le cose non sono andate in questo modo.

Le cooperative non sono diventate quel modello economico di sviluppo alternativo al capitalismo, rispettoso dell'ambiente, con al centro la persona e i suoi bisogni, ma si sono incartate insieme al resto del paese, seguendone la deriva centralista e clientelare, e il lavoro è passato in secondo piano.

Le dimensioni del fenomeno nonprofit in Italia sono importanti.

Dai dati Istat rileviamo che tra il 2001 e il 2011 c'è stata una crescita del 28% su base nazionale. Il Censis parla di 1.310.000 occupati nelle cooperative di produzione e lavoro. Nello stesso periodo il pubblico impiego è diminuito del 11,5%, meno 369mila lavoratori.

Una buona fetta di occupazione in uscita è stata assorbita dal terzo settore, ma non tutta. Solo nella sanità e nell'assistenza l'aumento nel nonprofit è stato di 123.000 lavoratori con più del 50% dell'occupazione concentrata nelle cooperative. Parliamo di 300/400 mila persone, per lo più occupate nella cooperazione sociale tipo A. Un piccolo esercito disperso in una miriade di piccoli appalti pubblici e privati.

Le cooperative sociali sono quelle che si occupano di perseguire l'interesse generale della comunità alla promozione umana e all'integrazione sociale dei cittadini, attraverso la gestione di servizi socio sanitari, educativi, e l'inserimento lavorativo di persone svantaggiate.

A fine 2011, secondo l’Istat, erano 11.264, raddoppiate rispetto al 2001.

Secondo i dati dell’Alleanza delle Cooperative Italiane il 29% delle associate sociali è costituito dal 21% di tipo A e solo dall’8% di tipo B.

La crescita del +17,3%, quantificata dal 2007 al 2011, è tutta concentrata nelle grandi cooperative. Da anni è in atto un processo di accentramento, sopravvivono solo le grandi, più del 40% dei lavoratori è impiegato nelle cooperative sociali di grandi dimensioni, quelle con più di 250 addetti.

Le cooperative di tipo A oramai sono delle aziende a tutti gli effetti che fanno grossi fatturati. Spesso superano le mille unità e i soci non sono altro che deleghe in mano a yes-man nelle assemblee dei soci.

Si potrebbe dire che le cooperative sono state coinvolte nel processo di smantellamento dello stato sociale? Certamente sì.

Il fenomeno dell'esternalizzazione dei servizi, iniziato negli anni ottanta, è alla base dell'enorme sviluppo della cooperazione sociale.

Le cooperative hanno intercettato l'occupazione in uscita dal pubblico, sono state scelte perché costano meno e perché garantiscono più elasticità: meno burocrazia, meno sindacati, più snelle e flessibili.

Lo strumento usato è l'appalto al massimo ribasso: programmazione e organizzazione rimangono in capo all'ente pubblico e la cooperativa è chiamata come fornitrice di manodopera, senza alcuna autonomia nella gestione progettuale ed economica.

Il rischio è che un welfare low cost non garantisca a tutti, livelli dignitosi di assistenza, come già oggi accade.

I dirigenti delle pubbliche amministrazioni molto spesso esaltano il ruolo delle cooperative sociali e sempre più spesso assistiamo ad esternalizzazioni dissennate che non tengono minimamente conto delle esigenze dell’utenza, a discapito sia di quest’ultima che dei lavoratori siano essi pubblici o privati.

Gli appalti relativi ai servizi socio-sanitari-assistenziali seguono la regola dell’offerta economicamente più vantaggiosa per l’assegnazione dell’appalto, ovvero viene dato un punteggio superiore al progetto rispetto all’offerta economica. Ma questo troppo spesso non è altro che un camuffamento per far vincere la cooperativa che fa il miglior ribasso sull’offerta economica o la cooperativa amica di questo o quell’amministratore.

Sul socio-educativo invece non sempre viene rispettata l’applicazione della legge Regionale che prevede anche qua l’applicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa. E allora troviamo servizi educativi che si trasformano in “sorveglianza” o “sorveglianza a carattere ricreativo come nelle sagre” e quindi assegnazioni al massimo ribasso senza tanti balzelli e maschere.

Inoltre in questo settore socio-educativo è allarmante la situazione che si viene a creare con la trovata geniale dei nostri Amministratori Pubblici di “affidi di servizi” che rendono questi lavoratori iper-precari, con appalti a chiamata che a volte, come abbiamo appurato troppo spesso, non coprono nemmeno il costo del lavoro delle figure impiegate.

Gli educatori sono figure educative importanti, laureate, ma utilizzate come veri e propri lavoratori a chiamata, sempre a disposizione ma con nessuna garanzia. Ogni malattia o impedimento dell'utente significano ferie, ore di lavoro perse e permessi non retribuiti. La pubblica amministrazione eroga l’importo economico solo per le ore effettivamente svolte e se la famiglia a metà affido del servizio decide di cambiare cooperativa, il lavoratore è liquidato senza tante cerimonie, come fosse un libero professionista, e viene posto in aspettativa non retribuita. Per non parlare dei mesi estivi e del fatto che raramente troviamo dei contratti full-time. Nella maggioranza dei casi sono contratti di 20/25 ore settimanali con redditi che a stento arrivano ai 500/600 euro mensili.

Il rischio d'impresa è quindi tutto sulle loro spalle, che non hanno nessuna garanzia né dell'orario di lavoro, né della continuità lavorativa, nè di stabilità del reddito, con una flessibilità estrema che compiace gli Amministratori Pubblici.

Sarebbe necessario prevedere degli obblighi in capo agli enti per garantire continuità di occupazione a queste persone, ma pare che su questo versante ci sia una sorta di sordità permanente.

Ma gli appalti al massimo ribasso davvero ci garantiscono la qualità dei servizi?

In molti casi sì, ma è tutta opera dei singoli operatori che pagano, letteralmente di tasca loro il divario tra costo reale del servizio e costo erogato dalle Pubbliche Amministrazioni.

Perché i salari sono nettamente inferiori a quelli del Pubblico Impiego.

Nell'assistenza siamo nell'ordine di un 30-40% in meno rispetto ad una occupazione equivalente del settore pubblico, per non parlare delle cooperative di tipo b.

Le centrali cooperative hanno interesse a mantenere bassi i salari per essere più concorrenziali sul mercato, perché oramai la Pubblica Amministrazione è orientata ad aprire i bandi per l’assegnazione dei servizi anche alle Associazioni di volontariato senza specificare il contratto di riferimento, quindi vi lascio ben pensare a cosa andiamo incontro. Regolamenti interni che di diritti per i lavoratori non hanno nemmeno l’ombra.

La logica degli appalti non favorisce dunque la costruzione di reti di welfare, favorisce invece la competizione tra cooperative.

Proliferano le lobby, gli interessi privati, il profitto e l'interesse personale, la parentopoli e l'affermazione di boss locali strettamente legati ai loro referenti politici.

Nessuna rete neanche con l'utenza, che è assente sia nei tavoli di progettazione che nelle cooperative.

Benchè meno con il Sindacato che viene visto con il fumo negli occhi perché sprona i lavoratori a prender coscienza della loro condizione giuridica.

La legge 142 sul socio lavoratore, pare sancire che esso è ancora un lavoratore di serie b.

Si è soci e lavoratori subordinati al tempo stesso, ma senza gli stessi diritti di un lavoratore pubblico o privato. In caso di esclusione da socio viene meno anche il rapporto di lavoro, senza tutela in materia di licenziamento.

Niente art. 18 per intenderci.

Il socio lavoratore di cooperativa deve avere gli stessi diritti di un lavoratore dipendente e il lavoro in cooperativa va ricondotto a tutti gli effetti al lavoro subordinato.

Va rivisto l’impianto della legge e va chiarita in via definitiva questa ambivalenza che lascia sempre una nebulosa sui rapporti tra lavoratore e cooperativa.

I soci delle cooperative, nella maggior parte dei casi, sono imprenditori a loro insaputa, visto che la maggior parte di loro nei cambi d'appalto stipula contratti di lavoro con cooperative di ogni parte d'Italia che neanche conosce, dal momento che vige il ricatto “o diventi socio o ti rendo la vita impossibile”.

Inoltre all'interno delle cooperative stenta ad esserci la libertà di espressione ed è difficile fare proselitismo sindacale. E’ difficile parlare di attività antisindacale, ma di certo non è incentivata soprattutto quando saliamo di livello.

I vertici sopportano che tra gli operai ci sia la presenza del sindacato perché ritenuta utile e funzionale alla cooperativa stessa. Ma più saliamo i vertici della piramide più le cose cambiano. Negli uffici i lavoratori sindacalizzati al di là dei titoli e dei meriti sono isolati, emarginati, spostati ad altri incarichi; gli avanzamenti di carriera sono preclusi, il controllo è stretto e la paura di sbagliare è tanta. Fare tesseramento in questo contesto non è facile perché i lavoratori temono che questo gli possa costare caro.

Troppo spesso assistiamo al presidente di turno che sbeffeggia i sindacati sostenendo che essendo una cooperativa ci pensano loro al bene dei propri soci. Come una grande famiglia dove tutti si vogliono bene.

Già. Ci pensano loro.

Ci pensano loro anche quando mi ammalo e supero il comporto. Mi arriva a casa una bella letterina con sopra scritto “il Consiglio di Amministrazione ha deciso la tua esclusione da Socio e conseguentemente anche da lavoratore della Cooperativa perché sei di salute cagionevole e non ci sei più utile”. Ma non eravamo una grande famiglia? Non ci pensavano loro a difendere i miei diritti?

Cooperative a mutualità prevalente c’è scritto nella legge.

Una cosa eccellente a ben pensarci, ma io di mutualità a favore dei soci ne vedo ben poca. La vedo quando si deve salvare la cooperativa immettendo quote di salario per ricapitalizzare le perdite di gestioni dissennate. Ma raramente vedo un ritorno di utili ai soci. Eppure i fatturati li fanno e chiudono spesso con larghi utili ogni anno.

Ma forse confondo io le parole e attribuisco ad esse un significato diverso.

Recentemente una grossa cooperativa di sinistra, che si dice amica della Cgil, mi ha chiesto di siglare un accordo per togliere l’importo dei 10 minuti di pausa giornalieri direttamente dalla busta paga, perché in tal modo, mi è stato spiegato con il massimo della benevolenza, ci può essere un risparmio di oltre un milione di euro ogni anno. Ah, ecco ora mi è chiaro cos’è la mutualità prevalente, pensare al bene dei soci e si sa che la pausa fa male, per cui togliendola economicamente faccio un favore ai lavoratori!

Le cooperative non possono essere un puro strumento per cancellare diritti, pagare meno e sfruttare la disperazione delle persone per poi metterle da parte.

I lavoratori sono manovalanza a basso costo con i diritti rosicati all’osso e una flessibilità che definire estrema è eufemistico.

Il Direttore della Direzione Territoriale del Lavoro di Piacenza, in un interpello al Ministro del Lavoro, ha definito il lavoro in cooperativa come moderno caporalato dove, chi "disturba", rischia di non lavorare più, ma senza le garanzie di un formale provvedimento disciplinare o di un licenziamento.

La parola caporalato rende perfettamente l’idea.

Dobbiamo continuare ad agire, in maniera confederale e trasversale tra le varie categorie della Cgil, su questa logica degli appalti al massimo ribasso evidenziando la responsabilità degli Enti Pubblici, che pensano soprattutto a risparmiare.

Puntando il dito verso le Pubbliche Amministrazioni che nei capitolati non includono le clausole sociali, che permettono l’applicazione di CCNL scaduti e disdettati o di CCNL che non rispettano i minimi contrattuali.

Dobbiamo continuare nell’opera di denuncia delle cooperative che non applicano i contratti e che non rispettano la normativa sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro affinchè vengano escluse dall’affidamento dei servizi.

E in controtendenza rilanciare l’internalizzazione dei servizi per garantire da una parte tutele universali agli utenti e dall’altra parità di condizioni lavorative agli addetti del settore.

La crisi non può diventare l’ennesima scusa per taglieggiare questo settore che già di default parte privo di tutele ed economicamente depresso.

Dina Sovran

Ultimo aggiornamento Sabato 25 Luglio 2015 09:19
 
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