Salzano a Sacile: grandissima serata all'insegna dell'urbanistica razionale e della simpatia!!! |
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Lunedì 21 Febbraio 2011 08:57 |
E’ stata una grandissima serata. E’ stata una grandissima lezione di vita e di valori, di storia, di sociologia, di politica. Difficile comprimere e ridurre ad un semplice elenco la sua biografia – tentiamo di farlo limitandoci a ricordare che:
Nato a Napoli, classe 1930, nipote di Armando Diaz, Duca della Vittoria, e soprattutto, papà di sei figli e nonno di 10 nipotini. Oggi, Edoardo Salzano si definisce “libero pensatore” (anche se, dopo averlo ascoltato, noi siamo sicuri lo sia sempre stato…) che si dedica con immutata passione a “mettere insieme le cose con le parole dette e le parole scritte; raccontare e scrivere per gli amministratori e per i ragazzi a proposito di città, territorio, ambiente, pianificazione. Per lasciare qualcosa di te ai figli e ai nipoti, e far conoscere a quelli che verranno, l’Italia che hai vissuto.” (pg.XIII) Non è un libro tecnico. Non è un manuale di urbanistica. E’ un grande racconto di urbanistica vissuta. Un racconto che affascina sin dalla prima pagina e toglie ogni timore di fronte al tema grazie alla grande capacità narrativa di Salzano, per come ci avvince con il linguaggio usato, lo sviluppo del contenuto, che, partendo dalla sua biografia, ci porta quasi senza accorgercene ad attraversare la storia e infine alla lettura degli strumenti tecnici di questa disciplina, apparentemente così oscura a noi cittadini, probabilmente tenutaci invece ad arte il più lontana possibile. Nella prima parte autobiografica risalta subito la grandezza di Edoardo Salzano – sì, perché come dice il sottotitolo “L’Italia che ho vissuto”, in primo piano non è lui, bensì la Nazione, da preservare come territorio nel suo inscindibile legame con il senso dello Stato. L’autore usa la sua biografia per mettere sempre in primo piano l’amore per i luoghi, il segno di eventi storici e di scelte politiche, l’autorevolezza di molti protagonisti legati alle vicende della buona Urbanistica, dei quali altrimenti non sapremmo i nomi, ai quali egli tributa affetto e gratitudine. Un grande narratore dunque, che sa farci provare attraverso i sensi di un bambino il fascino di luoghi oggi perduti, come lo scantinato della grande Casa sul Corso a Napoli, dove nella grande cucina regnava il cuoco Luigi, che “sull’immenso tavolo di marmo tagliava, batteva, impastava, scorticava, sventrava, disossava, farciva; nell’acquaio di marmo lavava le verdure, i pesci, le carni, finalmente, sui numerosi fuochi del lungo piano di cottura, alimentato dalla brace sempre rosseggiante, governava sulle pentole scoperchiando, mescolando, agitando, assaggiando, aggiungendo sapori e odori.” (pg.XIX) Un grande narratore che sa condensare gli attimi tra lo smarrimento e la consapevolezza della fine della guerra di un adolescente, affacciato al balcone a Roma, nel “lungo silenzio” sceso sulla città tra il rumore che si perde dell’ultimo camion tedesco in fuga da una parte e il crepitio della prima camionetta degli alleati in avvicinamento dall’altra. Il primo pensiero di un adolescente perennemente affamato “La carestia era finita.” (pg.XXXVI) Nella sua semplicità e immediatezza uno scorcio magistrale. Un grande narratore che, diventato giovane attivista di partito, ci trascina insieme a lui nell’onda della folla festante al quartiere di Centocelle, quando i giovani comunisti, alla fine di un appassionato comizio di Pietro Ingrao, lo strappano dal palco e lo portano in trionfo. (pg.64) Svanito ogni timore di fronte all’argomento, il lettore vi si addentra. In premessa, tre sono per Salzano gli aspetti racchiusi nel termine di “città” (pg.XIV):
Da qui è partito Salzano anche durante la serata per affascinare di seguito il pubblico presente con una vera e propria lezione magistrale. Seguendo il percorso del libro il lettore potrà scoprire e comprendere gli intrecci virtuosi o, al contrario, i legami infami, tra le sorti dell’urbanistica e la storia della società italiana. “In Italia”, scrive Salzano, “l’urbanistica era in forte ritardo rispetto ad altri paesi europei. Ciò derivava certamente dal provincialismo culturale determinato dal regime fascista, ma anche dal modo in cui in Italia avveniva la formazione degli urbanisti. Negli anni venti si era sviluppato un dibattito circa l’introduzione in Italia di questa disciplina. Si era aperto il confronto tra due modelli: l’uno, sostenuto da Silvio Ardy e da Cesare Chiodi, proponeva la fomazione di un tecnico fortemente orientato alla gestione amministrativa e alla tecnia delle reti infrastrutturali (oltre che informato sugli aspetti edilizi, giuridici, storici, sanitari); l’altro vedeva l’urbanistica come una costola dell’architettura, fortemente concentrata sull’attività edilizia. Quest’ultima fu la tesi che prevalse, anche per il ruolo che il suo promotore, l’architetto Alberto Calza Bini, svolgeva nelle strutture del regime fascista.” E Salzano cita lo storico Fabrizio Bottini, che traduce la proposta di Andy in quella dell’urbanista in qualità di “eletto funzionario comunale”, mentre quella di A. Calza Bini è un “architetto urbanista, un professionista solidamente legato ai diversi interessi (amministrativi, ma anche finanziari, imprenditoriali, proprietari) la cui sinergia caratterizzava il regime corporativo fascista.” Segue un ricco susseguirsi di fatti, dati e concatenazioni, sempre espressi in modo chiaro e semplice, ma mai semplicistico: dal significato della sentenza della Corte Costituzionale del 1968 che dichiarava illegittime alcune norme della giovane Legge Urbanistica, alle problematiche della migrazione interna e del mondo del lavoro in rapido cambiamento, al forte impulso dato dal movimento femminista e studentesco, allo sviluppo del dibattito sugli spazi pubblici e la rendita urbana, agli scenari possibili della condivisione di valori su determinate scelte tra mondo cattolico e PCI e del compromesso storico, alla Legge per la Casa del 1971, ad esempi di pianificazioni, alla debolezza dell’Amministrazione Pubblica che insidia l’urbanistica negli anni ’80 e porta allo sfacelo con evidenza negli anni ’90, alla Legge Lupi (di nome e di fatto) del 2005, che Salzano giudica la “più nefanda delle proposte legislative per la riforma dell’urbanistica che l’Italia abbia mai conosciuto”, scrivendo in una lettera aperta che “l’Istituto Nazionale di Urbanistica, di cui mi onoravo esser stato Presidente per dieci anni, si è macchiato in tal modo di una colpa a mio parere molto grave. Ha avallato una legge che cancella oltre 60 anni di faticosa affermazione di un’urbanistica moderna ed europea, quindi basata sul ruolo delle amministrazioni pubbliche, sulla prevalenza degli interessi generali, e via via sulla stretta connessione tra pianificazione del territorio e tutela del paesaggio, sul riconoscimento dei diritti ai servizi e al verde di tutti i cittadini della Repubblica.” (pg.132) Dopo il quadro storico generale si passa all’esame degli strumenti di lavoro e del lessico specifico che noi cittadini leggiamo ogni giorno sui giornali, ma il cui significato ci resta (ci deve restare!) piuttosto oscuro e lontano, per permetterne la sua mistificazione. Come quando molto elegantemente il termine “valorizzazione” significa più che probabilmente “monetizzazione”, dove i famosi “diritti edificatori” sono diritti molto unilaterali, dove i “crediti edilizi” non sono certamente crediti della comunità verso la quale chi ha cementificato è in debito, dove l’urbanistica “concertata” di certo non è sinonimo di pianificazione partecipata dal basso, dove la tanto decantata “perequazione urbanistica” si rivela invece una pratica pericolosissima, dove la “compensazione” non assume il significato di Bilancio Ecologico per cui da noi chi costruisce non è minimamente tenuto a “compensare” il danno alla collettività, dove si spaccia per “snello” lo strumento della Variante che invece rispecchia l’allegro “pianificar facendo” tanto tipicamente italiano, ecc. ecc. Grazie al libro di Salzano questo lessico non sarà più tanto ostico a noi cittadini. E questo significa che inizieremo a non berle proprio tutte. E riconoscere il principio attivo del veleno vuol dire saper preparare l’antidoto. Resta però ad ognuno di noi il compito fondamentale di rispondere all’interrogativo al quale Edoardo Salzano stesso non ha ancora trovato risposta: “E’ davvero fatale che la democrazia coincida, senza residui, con la tutela esclusiva degli interessi immediati espressi dai gruppi sociali esistenti, oppure essa è capace di farsi carico anche degli interessi dei soggetti che non pesano ancora elettoralmente né socialmente, perché ancora non esistono? E’ acpace insomma la democrazia di farsi carico degli interessi delle generazioni che verranno? Dobbiamo sperarlo, ma soprattutto, dobbiamo lavorare perché sia così.” Sacile Partecipata e Sostenibile lo ha posto come fondamento nel suo programma e l’organizzazione di questa serata coerentemente lo conferma. Per chi ha voluto partecipare, ha voluto capire e vuol farne tesoro, una serata indimenticabile. |
Ultimo aggiornamento Lunedì 21 Febbraio 2011 23:30 |